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NOI GIOVANI STIAMO MALE

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di Andrea Costanza


Per partire col discorso, c'è bisogno di una premessa. Eccola: in ogni agglomerato, a parer mio, vige un pensiero maggioritario voglioso di influenzare quel che gli gira attorno. Un pensiero nel quale troviamo idee, convinzioni, modelli di comportamento, visioni del mondo, usi, costumi; insomma, una struttura che tende a dominare e suggestionare il contesto in cui opera. Una sorta di enorme “club”, affamato di continue adesioni per sentirsi ancora più poderoso e quindi bramoso di stigmatizzare chi non vuole adeguarsi. Perciò, capita l'antifona, il singolo individuo ha due strade davanti a sé: o cerca di sposarne le consuetudini, per poi effettivamente cercare (ma ci riuscirà mai?) di “iscriversi” e dunque tentare di farsi maggioranza; oppure, in caso di mancata “obbedienza”, sarà costretto a incassare, per via traverse o meno, tutta quella serie di considerazioni dispregiative (fanno anche rima: sfigato, disgraziato, disadattato, sventurato, scalognato. I sinonimi sono infiniti), che tenderanno a considerarlo un essere “inefficiente”, non degno di considerazione. Specie noi giovani subiamo questo tipo di influenze, e stiamo male. Molto male, anche se non lo diamo a vedere.

Il nostro dramma autentico è proprio questo: tendiamo a non essere ciò che siamo, bensì solo una controfigura derivata da quel che gli altri vogliono vedere in noi. Tutto a scapito del raggiungimento della felicità interiore. Va da sé che l'ansia da prestazione è una “conditio sine qua non” dell'intera trama, proprio perché il tutto è intervallato da continui esami da intraprendere e superare mediante il raggiungimento di risultati massimi e sforzi minimi. Una gran fatica.

Ecco, chi nutre le fondamenta di questo maledettissimo club maggioritario nella nostra società occidentale? A parer mio, la pubblicità. La quale condiziona, influenza, inaridisce, storpia le coscienze. Esempio. Quando ci guardiamo allo specchio per tentare di compiacere il nostro narcisismo, correliamo e dunque valutiamo il risultato dell'immagine proiettata in base a modelli corporei che portiamo nella nostra mente. Dunque un ragazzo o una ragazza, magari di bell'aspetto, tenderà a sentirsi perennemente poco gradevole a causa di quei particolari estetici che potrebbero avere il demerito di inficiare il suo modello di riferimento, dettato, appunto, dal mondo pubblicitario.

Dunque, cosa succede? Per ambire all'accettazione sociale, e dunque per non pagare pegno, siamo costretti a rispondere positivamente e efficientemente agli input propalati dal mondo della pubblicità, nel quale categorie come "esteticità", “efficienza”, “individualismo”, “successo” dominano incontrastati. L'introspezione? La sensibilità emotiva? La ricerca del trascendente? La capacità di ascoltare e di essere d'aiuto? Macché, roba da gonzi, anzi da “sfigati/e”. Ecco, il risultato finale è una continua e crescente desertificazione, omogeneizzazione dei rapporti sociali, che ci rende e renderà meno umani e più simili alle macchine.

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