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RICORSO ELETTORALE, BERARDI HA PERSO

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Ci sono voluti due anni e quattro pronunciamenti, due del TAR Puglia, due di appello.
Il 14 giugno scorso si è tenuta l’udienza a Roma, presso la quinta sezione del Consiglio di Stato che ha discusso il ricorso di Vittorio Berardi contro la sentenza con la quale, l’anno scorso, il TAR gli aveva dato torto.

Il consigliere di minoranza, ex candidato sindaco del centrosinistra nelle amministrative di giugno del 2009, non arrivato al ballottaggio per 29 voti, ha sempre contestato l’ammissione alla competizione elettorale della lista “Progresso” che ha utilizzato un simbolo identico all’omonimo movimento politico fondato proprio da Berardi nel 1970.

Il collegio” non ha ritenuto corretta l’interpretazione, da parte del ricorrente, della legge che vieta l’utilizzo di simboli uguali, confondibili con quelli “notoriamente usati da altri partiti o raggruppamenti politici”. “Tale interpretazione non conduce ad accogliere la pretesa del ricorrente, dovendosi ritenere che il precedente simbolo del ‘Progresso’ non sia riconducibile ad un contrassegno notoriamente usato da un partito o raggruppamento politico” scrivono i giudici nella sentenza che qui sotto pubblichiamo.

Il notorio utilizzo del contrassegno -da parte del Progresso di Berardi, si legge ancora nella sentenza- è smentito dal fatto che, alla luce dei documenti prodotti in giudizio, il precedente simbolo era stato presentato nelle competizioni elettorali del 1970 e del 1975 e poi non più utilizzato per 34 anni”. Legittima è stata, dunque, la decisione della Commissione elettorale mandamentale che a maggio del 2009 ha ammesso la lista il Progresso e il suo simbolo alla competizione elettorale amministrativa.

Per questo motivo “il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), respinge il ricorso in appello in epigrafe”. Chiusa la questione. I giudici decidono anche per la compensazione delle spese processuali “tenuto conto della peculiarità in fatto della controversia e della parziale novità della questione”.

«Come si è conclusa questa vicenda lo si legge nella sentenza» ci dice a caldo Berardi. «Il semplice fatto -continua- che hanno compensato le spese vuol dire che si battono il petto, perché uno che ha torto viene condannato anche al pagamento delle spese processuali». Secondo il consigliere appellante la sentenza lascia in sospeso una serie di motivi del ricorso, anzi, i giudici li hanno ritenuti “in parte privi di fondamento e in parte inammissibili”.

Non è, dunque, importante -dice Berardi- che «297 schede in una sezione non si trovino». «Che ci siano delle cancellature, degli errori in un’altra sezione, anche questo non è importante». «Lasciamo l’interpretazione di tutto questo alle persone sane di mente».

Anche perché, dice ancora Berardi, «qui si tratta di 29 voti, non è che stiamo parlano di un terremoto di voti». L’amaro è tutti qui, il margine che ha evitato a Roberto Romagno il ballottaggio è veramente esiguo, esaminare le schede delle tre sezioni contestate poteva erodere quell’inezia di margine facendo scattare il ballottaggio. Così non è andata e non sapremo mai se il riconteggio delle schede in quelle tre sezioni avrebbe cambiato il corso degli eventi.

Una cosa è certa, finisce qui la fibrillazione da ricorso pendente in ambedue gli schieramenti. Forse questo rasserenerà gli animi, il clima politico da eterno scontro al limite della rissa a cui siamo stati abituati in questi primi due anni di amministrazione Romagno.


La sentenza









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