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Invito alla lettura: «Quando non c’era Papa Francesco» di Damiano ZAMBITO

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Sac. Pasquale Pirulli
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Dopo oltre cinquanta anni ho ripreso i contatti con un compagno di studi alla Pontificia Facoltà Teologica di San Luigi sulla collina di Posillipo in Napoli. Egli è il prof. Damiano Zambito, nato a Castrofilippo (Agrigento) il 19 febbraio 1940. Quando entrai a Posillipo nel Pontificio Seminario Campano il 20 settembre 1961 egli era agli inizi del terzo anno. Il contatto è stato possibile con l’intermediazione di un amico comune il prof. Vincenzo D’Aprile di Conversano. Il prof. Damiano mi ha fatto pervenire un suo testo dal titolo: «QUANDO NON C’ERA PAPA FRANCESCO – Storia di un’esperienza religiosa in terra di Sicilia», edito da Grauseditore di Napoli nel 2014.

A distanza di anni egli ha voluto raccogliere la sua esperienza di sacerdote in un periodo significativo della storia della diocesi agrigentina, che va dal terremoto del Belice ai confronti politici dei cattolici su temi delicati quali il referendum sull’abolizione della legge sul divorzio e la scelta religiosa dell’Azione Cattolica. Ho letto il testo con viva emozione anche perché l’autore ha ricordato gli anni trascorsi nel seminario di Posillipo, guidato dai pp. della Compagnia di Gesù.

Il testo è introdotto da una equilibrata introduzione firmata da Salvatore La Barbiera il quale sottolinea come la storia raccontata da Damiano Zambito, nella quale si scontrano la laicità e la religiosità bigotta e tradizionalista, si apre ad un anelito di giustizia sociale che impegna l’attenzione e l’azione della Chiesa del postconcilio, cui fa resistenza una corrente di pastorale arroccata nel collateralismo politico che a volte corre il rischio di collusione con il potere mafioso.
Damiano Zambito ripercorre le prime esperienze pastorali quale assistente diocesano dell’AC giovani, e nell’entusiasmo non può dimenticare il clima di libertà e di responsabilità in cui è stato formato e che lo ha messo a contatto anche con la realtà della casa di rieducazione minorile di Nisida.
Dopo una prima deludente esperienza come viceparroco a Licata è trasferito a Cattolica Eraclea e collabora con l’arciprete Cuffaro che aveva salvato il vescovo Peruzzo da un attacco mafioso.
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Dopo tre anni in cui con entusiasmo ha seguito un sola indicazione: «Tu pensa ai giovani, cerca di riavvicinarli alla Chiesa, so che ci sai fare!»,viene a scontrarsi con la esperienza del terremoto che sconvolge la valle del Belice nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1968, a 60 km da Cattolica Eraclea. Apprende la notizia da alcuni ragazzi di Azione Cattolica che studiano a Sciacca e poi d’accordo con l’arciprete raggiungono Montevago per rendersi conto dell’immane tragedia. Mentre l’arciprete rientra a Cattolica Eraclea con alcuni amici rimasti senza casa e senza viveri, Damiano rimane e collabora ai primi soccorsi; «Incontro un gruppo di poliziotti, portati lì per prestare i primi soccorsi, Non muovono un dito. Aspettano ordini op, forse, hanno paura. Più in là due carabinieri e tre vigili del fuoco. Girano per le case rimaste in piedi, entrano con precauzione, rimuovo alcuni cadaveri, sentono lamenti, trovano anziani, malati, feriti sui letti, abbandonati da chi era fuggito per paura e, per paura, non ritornava. Li soccorrono con lettighe improvvisate, ricavate dagli sportelli delle finestre. Provo a dare una mano. Preziosa, mi dice uno dei vigili, come vede siamo solo in cinque, per trasportare morti e feriti bisogna lavorare in coppia, con il suo aiuto siamo tre coppie». Continua il suo andirivieni tra Cattolica e Montevago alla ricerca di viveri, coperte, medicinali e anche di particolari bisogni dei più piccoli ospitati con le mamme in tre tende (succhiotto, scarpe, biberon, ecc.) Un ricordo commosso è il suo incontro con il prof. Gerbasi, rettore dell’università di Palermo, che visita «senza camice bianco, in giacca e cravatta» una ventina di bambini e prescrive antibiotici e sciroppi, dispone il ricovero in ospedale di due bambini con gravi sintomi di bronchite e si attiva per il ricovero immediato di una bambina presso l’Ospedale dei bambini di Palermo. I genitori della piccola fanno resistenza ma poi si convincono. Zambito commenta e ricorda: «Il Professor Gerbasi dice: “Entro stasera manderò un’ambulanza attrezzata da Palermo”. È stato di parola. Mi saluta, parte, non lo rivedrò più, ma mi lascia un ricordo affettuoso e indelebile».

La mattina del 24 scaricando dalla macchina scatole di pannolini, che non sono tutti quelli pediatrici, deve prendere in considerazione i bisogni di assorbenti intimi delle ragazze e delle donne e ai due collaboratori della POA (Pontificia Opera Assistenza) ordina: «Domani lasciate perdere i pacchi con i vestiti, portate tanti assorbenti, ma tanti, forse non basteranno». Il giorno dopo alla risposta evasiva dei responsabili della POA. coordinata dalla nipote del vescovo che non hanno portato gli assorbenti necessari, Damiano si mette in giro per i paesi vicini (Cattolica, Montallegro, Siculiana e Porto Empedocle) e in poche ore fa incetta di 86 pacchi di assorbenti che consegna a chi ne ha bisogno e riceve un commosso e pudico ringraziamento: «Grazie, anche a nome delle mie amiche!». belice-2


Forse la pagina più drammatica è quella che racconta l’esodo dei bambini e delle bambine della valle del Belice verso il Nord, che egli rivive con intima partecipazione. Lascio la parola allo stesso Damiano Zambito che ricorda i particolari di questa sua «avventura di carità»: «E’ il vicepresidente della POA, un uomo di fiducia del Vescovo. Mi dice: Damiano, immagino che stai andando a Montevago. Ti vorrei chiedere un intervento più urgente sempre per i terremotati: è in partenza da Agrigento un gruppo di bambini che saranno ospiti di alcuni istituti del Nord. Non si trova nessuno che li accompagni. È una situazione difficile, vorresti andare tu?». «Se è necessario, vado». Lascio le chiavi della mia macchina a un mio amico che lavora ai bordi della strada. Gli  dico di portarle a Cattolica dall’Arciprete, il quale provvederà a prelevarla, gli chiedo di riferirgli anche che io sto partendo per il Nord per accompagnare un gruppo di bambini terremotati e tornerò fra tre o quattro giorni, gli spiegherò tutto dopo. Salgo sulla macchina del dirigente della POA, ci avviamo ad Agrigento. Alla stazione ferroviaria trovo i ragazzi già sul treno: un gruppo di ragazze (15-18 anni) che dovranno raggiungere Brescia sono state affidate ad uno scout che aveva fatto un po’ di volontariato nei paesi del terremoto e tornava nella sua città, circa cinquanta ragazzi (10-15 anni) dovranno raggiugere Roma dove saranno accolti ed ospitati dai Salesiani, un gruppo di circa 60 bambine (9-12 anni) sono dirette a Venezia. Per loro non c’è nessun accompagnatore.
Organizza la partenza un pretone, che con le situazioni complicate ci sa fare e sa pure maneggiare affari e denari. Ci conosciamo bene, è stato anche mio compagno di scuola. Gli dico che sono stato incaricato di accompagnare questi ragazzi. Mi dà elenchi e biglietti, mi informa sulle destinazioni dei tre gruppi, mette le mani in tasca, tira fuori un pugno di biglietti da centomila lire, prende tre banconote e me le consegna: «E’ tutto organizzato, tutto pagato, ti possono servire per ogni eventuale imprevisto».
(…) Per sciogliere il ghiaccio, le faccio cantare. Uno di quei canti con cui ho animato gli incontro con i ragazzi di Nisida (già, Nisida, dirò qualcosa anche su Nisida) e di Cattolica. All’inizio le ragazzine sono diffidenti, non cantano. Io continuo imperterrito da solo: confido nella forza irresistibile di quei canti, l’ho sperimentata e mai è venuta meno. Funzionerà anche questa volta. Infatti, dopo un po’, qualcuna ripete il ritornello, poi un’altra, poi un’altra ancora, poi cantano tutte… Mi manca la fisarmonica, mia compagna inseparabile durante i miei incontri con i ragazzi. Supplisco con una maggiore carica di entusiasmo.

A Catania il treno si ferma per una breve sosta. Alcuni agenti della polizia ferroviaria si avvicinano alle nostre carrozze, portano alcune scatole piene di panini e di bibite, me le consegnano per la cena dei ragazzi. Di questi agenti ne incontreremo ancora, ci chiedono se abbiamo bisogno di qualcosa, se possono essere utili. Sono stati allertati dalle prefetture, informati del nostro viaggio. Non incontreremo mai un prete.

L’indomani arriviamo a Roma. Scendiamo dal treno, faccio radunare i ragazzi in gruppi, chiamo l’appello. Non manca nessuno. Meno male. Ci spostiamo sul piazzale d’ingresso, facciamo colazione al bar della stazione. Mi guardo attorno per veder se ci sono i Salesiani che debbono prelevare i ragazzi, non si vede nessuno. Comincio ad impensierirmi. Tra le carte che mi sono state date alla partenza c’è un numero di telefono. Lo compongo, mi risponde una voce «Istituto don Bosco». Mi presento. Mi dice: «Le passo il direttore». Mi presento anche a lui e gli dico dei ragazzi che deve ospitare. Comincia ad urlare. «Ma che modo di fare avete voi della POA; avevamo parlato di questa cosa qualche giorno fa, ci eravamo detti disponibili, ma non avevamo concordato né date né modalità. Mi dispiace, oggi non siamo preparati ad accoglierli».

«Le dispiace che?»,stavolta sono io ad urlare: <«Adesso lei viene a prendere questi ragazzi perché fra due ore parte il treno per Venezia e io debbo ripartire con gli altri. Se non venite entro mezz’ora convoco la stampa (sapevo che allora era molto attenta alle vicende del terremoto), comunico quanto succede e affido i ragazzi alla polizia, che ho trovato molto più attenta e  disponibile di voi». Chiudo il telefono. Dopo 25 minuti arriva un pullman con due salesiani, si presentano, dicono che sono venuti a prendere i ragazzi, glieli consegno, li saluto tutti. Ho un sospiro di sollievo. Missione compiuta almeno per il primo gruppo.
Ci dicono che il treno per Venezia è pronto al quinto binario. Abbiamo le carrozze riservate, i soliti poliziotti si mettono a disposizione, distribuiscono  bibite e caramelle.
Partiamo alle 11. Dopo cinque ore siamo alla stazione di Bologna, scendono le ragazze che debbono andare a Brescia, accompagnate dal giovane scout. Le salutiamo. Dopo un poco ripartiamo.quando-non-cera-papa-feancesco-1

Arriviamo a Venezia verso le dieci di sera. Sotto la pensilina ci attende il Vescovo ausiliare di quella città con alcune donne. Mi presento al Vescovo. Le ragazzine sono accolte, coccolate, accarezzate dalle signorine: «Sarete stanche e dovete avere pure fame», dicono. Ci portano al ristorante della stazione ferroviaria. Ci sediamo ai tavoli preparati per noi. Mentre mangiamo osservo che le signorine passano dietro ad ogni tavolo dove sono sedute le bambine, le guardano attentamente una a una, parlano un po’ tra loro, poi scrivono nome e cognome e altro su un blocchetto di appunti.

Finita la cena ci accompagnano in due istituti di suore dove le bambine saranno ospitate. Vengono assegnati i letti a ciascuna bambina assieme ad una busta contenente biancheria intima, spazzolino e dentifricio. Si erano accorte di un bisogno elementare di quelle bambine ed avevano provveduto subito. E non doveva essere stato facile alle dieci di sera. (…)Le saluto e vado a dormire anch’io presso il convento dei frati francescani. Anche a me consegnano, quasi con pudore, una busta con il pigiama, dentifricio e spazzolino. «Grazie. Ne avevo proprio bisogno».

L’indomani mattina a colazione incontro un altro prete. Fa il cappellano militare a Fontanarossa, sarebbe partito in mattinata, può chiedere al comandante se dà un passaggio anche a me. Non è consentito, ma date le particolari circostanze è sicuro che il comandante farebbe uno strappo al regolamento. Partiamo a mezzogiorno con quadrimotore dell’Aeronautica militare. Arriviamo a Catania due ore dopo, giusto in tempo per ripartire con un treno per Agrigento. Ferma in tutte le stazioni. Durante il viaggio ripenso alla vicende tumultuose dei due giorni precedenti.

Arrivo a destinazione alle 7 di sera. Sono sfinito, ma deciso a raccontare tutto e subito al Vescovo. Raggiunto il palazzo vescovile, mi trovo davanti al suo segretario, gli dico che voglio parlare con il Vescovo. Mi dice che non può ricevere nessuno, sta per andare in cappella per la recita della preghiera serale. Gli dico che della preghiera del Vescovo non mi importa nulla, io debbo parlare con lui e subito. Intanto si apre la porta della stanza vescovile e mi trovo davanti Il Vescovo e il direttore della POA, il quale mi dice, alzando via via la voce: «Stavamo parlando proprio di te, della bella figura che hai fatto fare alla diocesi, hanno telefonato da Roma». Lo interrompo dicendo: «Non si permetta più di parlare con me con quel tono di voce. Se c’è uno che deve alzare la voce, questo sono io, ma non lo farò» e, con decisione e il fiato rotto dalla stanchezza e dalla rabbia, gli racconto del mio viaggio avventuroso con tutti i particolari, con tutte le approssimazioni dell’organizzazione, con tutto il cinismo con cui erano stati trattati quelle ragazze quei ragazzi sventurati. Rimangono impietriti ad ascoltarmi per oltre venti minuti. Quando finisco, mi giro e me ne vado, senza salutarli.

Raggiungo casa mia in serata. Dormo quindici ore di seguito. La sera ritorno a Cattolica e l’indomani mattina a Montevago.
Trovo un ambiente completamente diverso da come lo avevo lasciato. Arrivano una dopo l’altra auto con le sirene spiegate, scortano il ministro di turno, il deputato di turno, l’autorità di turno. Giornalisti e telecamere si affollano attorno a loro per registrare la scena.

Questa scena non m’interessa più. Me ne torno a Cattolica per riprendere il mio lavoro ordinario con i ragazzi.               
Dopo aver raccontato la sua esperienza durante il terremoto della valle del Belice, nel secondo capitolo egli si sofferma sulla sua azione pastorale nell’Azione Cattolica che, dopo la primavera del Concilio Vaticano II, con la guida di Vittorio Bachelet, fa la scelta religiosa, auspicata da Paolo VI, e si distacca dal collateralismo con il partito della DC. Si tratta di confrontarsi da cristiani con i problemi che nella provincia di Agrigento sono quelli endemici: la mafia, l’emigrazione, la violenza, la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro.
Nel terzo capitolo Damiano Zambito ricorda gli anni di teologia trascorsi al Pontificio Seminario Campano per frequentare la Facoltà Teologica San Luigi di Posillipo. Si entusiasma al racconto delle esperienze pastorali di Don Lorenzo Milani di cui legge, con il permesso del preside della facoltà P. Francesco Bruno, il libro delle «Esperienze Pastorali» e fa il suo proposito: «Don Milani diventerà il mio modello di vita sacerdotale: attenzione alla vita concreta delle persone, impegno costante a favore dei poveri e degli oppressi».

Mi piace riportare quello che egli scrive dell’ambiente in cui sono stati formati anche molti sacerdoti della nostra diocesi di Conversano: D. Franco e D. Lorenzo Renna, D. Leonardo Erriquenz D. Vincenzo D’Aprile, D. Angelo Fanelli e anche il sottoscritto.
«A Posillipo la struttura e l’organizzazione della vita comunitaria  concedevano ampi spazi di libertà e di responsabilità personale che creavano le condizioni per una crescita umana assolutamente impensabile ad Agrigento. Per esempio, ogni settimana erano sollecitati ad uscire in città, per fare visite o acquisti o per organizzare attività sportive (al campo del collegio Denza dei PP. Barnabiti), ed ogni mese potevamo recarci per una giornata intera in una località a nostra scelta: Sorrento, Capri, Pompei, Montevergine, ecc. Gli indirizzi formativi erano più ricchi di spunti umani e sociali, persino il cibo era di qualità e quantità superiori.
Il livello culturale dell’insegnamento della teologia era notevolmente più elevato rispetto a quello di Agrigento: assieme  a professori molto legati alla tradizione, ce ne erano altri molto aperti ai nuovi stimoli che si sviluppavano nelle scuole teologiche europee, soprattutto in quella olandese e tedesca, avevano una profonda conoscenza della materia che insegnavano, parecchi conoscevano la lingua tedesca, francese e inglese, che consentiva loro di accedere direttamente alla più recente e qualificata bibliografia teologica e biblica, alcuni di loro conoscevano le lingue orientali: ebraico, arabo, russo. Anche il metodo di insegnamento era diverso: veniva dato molto spazio alle interpretazioni più recenti e demitizzanti della Bibbia e ad una lettura di taglio esistenziale della teologia, le cui questioni, da alcuni docenti, venivano presentate in maniera problematica con frequenti rimandi alla bibliografia presente nella ricca biblioteca della Facoltà.

Arrivai presto ad una determinazione che doveva segnare la mia vita futura: non farò mai alcuna affermazione teologica che non abbia un chiaro riferimento alla concreta vita dell’uomo».
Vorrei continuare questa rilettura del volume di Damiano Zambito con un accenno a due sue esperienze fatte durante gli anni di Posillipo.
La prima è quella delle lezioni integrative di religione nelle scuole elementari tenute una volta alla settimana  che incomincia nella scuola “Vanvitelli” al Vomero.  

«Gli altri istituti non scolastici in cui si andava settimanalmente a fare catechismo erano l’Istituto per ciechi “Domenico Martuscelli” e la Casa di rieducazione per minorenni di Nisida… Il sabato successivo andai a Nisida, anche stavolta per sostituzione. Circa 200 ragazzi, divisi in quattro padiglioni, appena usciti dai laboratori, vengono schierati in fila degli agenti, i quali procedono alla conta,. Se manca qualcuno sono grida ed improperi, i ragazzi avviliti e rassegnati. Saliamo alla cappella per la messa alla quale i ragazzi assistono, sempre controllati  dagli agenti di custodia, con la medesima rassegnazione. Rimango colpito e inquieto: che senso può avere quel rito che appesantisce ulteriormente la condizione di “prigionia” dei ragazzi? Provo a parlarne al cappellano, il quale mi dice: “Che cosa ci vuoi fare, tanto sono tutti delinquenti, non ti fare impressionare, per loro ci vuole disciplina e questa è garantita dagli agenti, non ti preoccupare”.

Decido che l’anno successivo avrei chiesto di essere mandato a Nisida per gli incontri settimanali. Comincia, così, questa mia avventura che durerà oltre un decennio in forme di partecipazione diversificate».

L’altra esperienza è quella del contatto con i vescovi impegnati nei lavori del Concilio Vaticano II a Roma. Damiano racconta: «Per quasi due anni, con un gruppo di amici, seguii i suoi lavori quasi in diretta. Utilizzavamo la giornata libera mensile, prevista dal regolamento del Seminario, partivamo da Napoli alle 6,30, ci recavamo all’imbocco dell’autostrada e, chiedendo un passaggio per risparmiare, raggiungevamo Roma. In genere alle or 10,30 eravamo a Piazza S. Pietro, giusto in tempo per vedere i vescovi che andavano alle sessioni conciliari. Si notava subito una notevole differenza tra loro: i vescovi italiani arrivavano quasi tutti con grandi macchine guidate dai loro segretari particolari, i vescovi dell’America Latina e dell’Africa arrivavano in pullman per risparmiare, alcuni di loro era ospitati presso la Domus Mariae, un istituto gestito da religiose con camere e refettorio molto modesti, monacali. Finita la sessione mattutina ci univamo a loro e si rimaneva insieme a pranzo, si commentavano le sedute del Concilio, si parlava delle loro diocesi. Il vescovo di S. Paolo ci invitò ad andare per alcuni anni nella sua diocesi…Sognavo di andare in Brasile. Cominciai a studiare la lingua, chiesi il permesso al mio vescovo, il quale me lo negò sostenendo  che nella nostra diocesi c’era bisogno di preti. Fui profondamente deluso».

A proposito di contatto con i lavori del Concilio vorrei ricordare che il prof. Karl Rahner, l’autorevole teologo di Innsbruck, di cui il nostro professore P. Alfredo Marranzini traduceva i testi per le Edizioni Paoline, ci tenne la lezione inaugurale dell’anno scolastico 1964-’65 e le tesi del trattato sulla Chiesa inserite nell’esame finale di licenza erano ricavate dalla costituzione Lumen gentium che era stata promulgata il 21 novembre 1964.

Mettendo a frutto il titolo della licenza in teologia, riconosciuto dallo Stato, Damiano si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Palermo dove consegue la laurea e nel 1970 riceve il primo incarico nella scuola pubblica. L’assistente diocesano di AC commenta: «Bene, così  potrai fare apostolato anche tra i giovani studenti e diffondere anche tra loro gli ideali dell’AC». Gli rispondo: “In AC faccio apostolato, a scuola faccio formazione culturale, didattica, latino, filosofia, storia e educazione civica” La questione è chiusa». Damiano legge con passione Lettera a una professoressa di D. Lorenzo Milani e il Paese sbagliato di Mario Lodi e si impegna per trenta anni nel lavoro scolastico dove si deve confrontare con alunni bisognosi di cure personali (come Ciccino) e presidi autoritari. Propone ai ragazzi qualche testo di Berthold Brecht (il susino) e fa studiare il latino come lingua viva partendo da rappresentazioni teatrali delle favore di Fedro (Lupus et agnus).  
      
Purtroppo i rapporti con il vescovo di Agrigento entrano in crisi e Damiano è perentoriamente invitato a lasciare la guida del settore giovanile dell’Azione Cattolica, perché ha dato “indirizzo orientalistico ai gruppi giovanili con prevalenza della scelta sociologica su quella primaria”, perché c’è “contraddittorietà tra il ruolo di assistente  di AC e le prese di posizione in opposizione al vescovo” e la firma al documento sulla vicenda del periodico Amico del Popolo. Il vescovo di Agrigento Giuseppe Petralia, dopo il disastroso risultato delle elezioni, determinato forse dalla libertà lasciata ai giovani nella loro scelta politica,  lo invita a lasciare il sacerdozio: «Perciò ti chiedo di lasciare volontariamente la celebrazione della Messa. Sarà un gesto di coerenza che ti farà onore». A nulla approda il tentativo fatto dal vescovo ausiliare di evitare il doloroso epilogo il quale si dice dispiaciuto dell’accaduto e Damiano chiude la sua storia: «Ci salutiamo. Rimarremo in buone relazioni. Chiudo definitivamente il mio rapporto con la Chiesa, chiedendo la riduzione allo stato laicale. La ottengo dopo qualche mese. Da laico continuerò il mio impegno nella famiglia e nella scuola».
Il volume si chiude con alcune pagine in cui i primi lettori di queste memorie, redatte con sincerità e passione dall’amico prof. Damiano Zambito, esprimono le loro riflessioni e le loro emozioni.

Dopo aver presentato agli amici questa piccola storia personale di Damiano Zambito, sono  più che mai convinto che, secondo l’insegnamento di Jacques Le Goff, per capire la grande storia si deve andare a scuola dai fatti quotidiani, vissuti con passione e sofferenza nei luoghi più remoti dagli uomini, che non indosseranno mai la maschera di attori per salire alla ribalta e ricevere gli applausi.           
 

Foto terremoto in Belice tratte,
dall'alto verso il basso, da ilmeteo.it, grandangoloagrigento.it

 

 

 

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