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Città Buie, il nuovo romanzo di Waldemaro Morgese

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di Teresa Gallone

Oggi il mio cammino di ricerca nella letteratura pugliese tocca nuove sponde. Il mio approdo si chiama “Città buie” (il Grillo editore). Padre dell’opera che andrò a leggervi è Waldemaro Morgese, molese di nascita, già direttore della “Teca del Mediterraneo”, presidente dell’AIB Puglia.

Come l’autore ha accennato durante la presentazione dell’opera nel giugno scorso, la narrativa contemporanea è bipartita: da un lato il filone fantastico cerca di evadere dalla realtà per raccontarne una nuova, dall’altro il filone realistico che narra la realtà e cerca di fornire strumenti per modificarla. Waldemaro Morgese racconta la contemporaneità attraverso i suoi personaggi realmente “viventi” nel contesto urbano.

“Città buie” rientra nel più generale “ritorno alla realtà” nella letteratura attivo nella nostra epoca, quella che Romano Luperini ha definito “ipermoderna” o “neomoderna”. Nel romanzo di Morgese infatti l’attenzione è tutta volta verso il referente, la realtà esternaurbana vista e vissuta attraverso la prospettiva dei tre personaggi protagonisti. Lo stesso autore ha dichiarato di aver tratto ispirazione da fatti veri di cronaca appresi dalla lettura quotidiana dei giornali. Si deduce da questo e dalla lettura dell’opera, quanto la datità cruda del reale e la sua rappresentazione sia il perno della fatica letteraria di Waldemaro Morgese.

Ho fatto riferimento alle parole dell’autore a proposito della volontà di incidere sul collettivo contesto esterno (in questo caso attraverso la parola letteraria) perché di questa si fanno portatori i protagonisti di “Città buie”. Il romanzo è infatti tripartito: tre protagonisti, tre conseguenti storie, tre modi di vivere e tre approcci / reazioni alla realtà in cui vivono. Il trait d’union è rappresentato dalla cruda urbanità dilagante in tutti i suoi aspetti e concretizzazioni.

Andiamo nel dettaglio. La protagonista della prima tranche del romanzo è Nora, “bibliotecaria di provincia”. Nata in un “quartieraccio” (attenzione, questa parola torna formularmente ad accomunare i tre personaggi), Nora si laurea in Lettere e fa la bibliotecaria in un paese a metà fra il mare e la collina. Ciò che la caratterizza è, a mio parere, un atteggiamento di resistenza attiva e gentile. Già dalle prime pagine la si trova impegnata a “spiegare quanto importante fosse la cultura, soprattutto ai giovani che frequentavano la “sua” biblioteca […] negli anni successivi però quei ragazzi avrebbero fatto tesoro delle sue riflessioni, Nora ne era certa”.
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Non solo: Morgese in flashback racconta la storia della non più giovane bibliotecaria, mettendo in evidenza come dai suoi primordi nel mondo abbia opposto alla crudezza del quartieraccio di nascita una gentile quanto ferma opposizione raziocinante. Nora prende ad analizzare il suo ambiente di nascita, le realtà umane che la circondano direttamente, la logica le impone di superare i mali personali con un procedimento graduale perché “altrimenti si resta sospesi in un limbo”.

Questo modus vivendi si proietta sul contesto esterno in sfacelo e dunque Nora reagisce, non attraverso la negazione e la fuga ma forte della spendibilità concreta della sua formazione. La “bibliotecaria di provincia” fa del suo bagaglio culturale medium per modificare positivamente la sua realtà. Non c’è in Nora l’alterigia dell’accademico, ma la volontà forte della cultura di migliorare il microcosmo che le appartiene. Di qui i suoi interessi proiettati verso il folclore, la geografia e l’architettura mediterranea, gli esempi umani positivi visti come sprone e protezione del suo “impegno […] come operatrice culturale e cittadina consapevole”.

Il secondo personaggio che si incontra è Moby, antinomico rispetto a Nora. Lei è apertura positiva e proficua, lui è chiuso e poco incline alla comunicazione. Entrambi con il quartieraccio alle spalle, l’una sicura della spendibilità della propria cultura letteraria acquisita con passione, l’altro studente distratto attratto dalle discipline tecniche. Nora è radicata nel suo territorio ferma sull’obiettivo della sua rivoluzione gentile, Moby è pronto a tagliare le proprie radici non appena ne ha la possibilità. La letteratura fornisce a Nora gli strumenti per agire in loco e, al contrario, è per Moby primo contatto con il concetto di viaggio.

Da bambino compie il suo primo percorso verso l’ignoto per e con la letteratura, precisamente grazie a Jules Verne. Diversamente da Nora, cittadina positivamente attiva, Moby “non voleva attendere che la sua città migliorasse, aveva fretta di andare lontano […] solo per marcare la distanza dai posti degradati in cui era cresciuto”. L’opposizione al mondo “buio” del ragazzo del quartieraccio non è quella della matura bibliotecaria. Moby sale letteralmente sulla cima del mondo ma la sua ascesa è in realtà una catabasi nei reconditi risvolti di sé. Nessuna resistenza attiva e sorretta dalla logica, Moby è puro impulso fisico portato agli estremi sino alla rottura, il richiamo delle radici e la conseguente intenzione di “ritrovare il pieno controllo di se stesso”.

La dialettica stanzialità/mobilità si risolve nel terzo personaggio del romanzo di Morgese, Achille. Ben lontano da quello omerico, Achille è solido, assolutamente non condizionato da moti sentimentali, fatto salvo il suo amore di gioventù che comunque accantona con tranquilla rassegnazione. Quest’ultimo personaggio ha in sé peculiarità dei primi due, declinate in modo originale. Achille ha la medesima tensione di Nora verso la cultura e lo studium inteso non solo come applicazione agli studi ma come impegno costante. Anche lui viaggia, abbandona il quartieraccio di nascita come Moby e mostra una grande passione per le materie tecniche e il ragionamento logico quantitativo.

Quella di Achille però non è una resistenza positiva e gentile all’oscurità della città ma un tentativo riuscito per grande volontà di opporsi al suo proprio buio ed emergere di conseguenza da quello della città, da lui analizzata come generale realtà in degrado in cui cercare di non fare più ritorno. Non c’è in Achille lo slancio fisico della gioventù verso il nuovo né il la volontà di bonificare il terreno putrescente delle proprie radici. Achille è l’ego solo che da solo cerca di lasciare le sponde oscure della sua origine per non farvi mai più ritorno.

Il romanzo di Morgese non “finisce”. Il buio della città non è vinto e non vince. Nora, Moby e Achille vivono a libro chiuso, schegge emblematiche dell’umanità che vive l’oscurità della realtà. Waldemaro Morgese non spinge il lettore a immaginare una conclusione per loro ma invita a sperare e a spendersi come loro, in modi molteplici, per dar luce al buio.



 

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